Per cogliere appieno la verità pratica di una mutazione politica e sociale importante può essere utile esaminarne le ricadute nel vissuto immediato delle lavoratrici e dei lavoratori.
Prenderò le mosse, al fine di comprendere che cosa effettivamente l’accordo del 30 novembre 2016 sui contratti del pubblico impiego comporti per quel che riguarda le relazioni fra governo e padronato e sindacati istituzionali e, soprattutto, quali sono le implicazioni per le lavoratrici ed i lavoratori da un’analisi dei dispositivi retorici posti in essere da alcuni sindacalisti e in particolare da quelli più raffinati ed accattivanti della CGIL Scuola.
Ovviamente le ricadute sul comparto Scuola hanno le loro specificità, quindi negli altri comparti vi saranno altri effetti, non dimentichiamo però che stiamo ragionando di un milione di lavoratrici e lavoratori.
Al fine di anticipare e depotenziare le eventuali critiche, il vispo sindacalista concertativo riconosce serenamente che gli aumenti salariali previsti dall’accordo, 85 euro medi lordi e a regime e dei quali una parte andrà a coprire la previdenza integrativa e il welfare aziendale, non recuperano nemmeno lontanamente quanto le lavoratrici ed i lavoratori del settore pubblico hanno perso dal punto di vista salariale negli ultimi anni e cioè, fonte il Sole24Ore, il 10,4% e copriranno al massimo l’inflazione dei prossimi anni.
Il sindacalista concertativo moderato preferisce invece saltare a piè pari questi discorsi volgari e passare immediatamente a una disanima “tecnica” delle ricadute dell’accordo per un verso e, in particolare, di quelle dell’accordo sulla mobilità del personale che ne è, come vedremo, una diretta conseguenza. La sua logica, a differenza di quella del sindacalista vispo, è la radicale de-politicizzazione della discussione e la trasformazione dell’assemblea in una mera occasione di consulenza, quanto più possibile individuale, che dà per scontato, quasi fosse un evento naturale, l’accordo stesso.
Ora, è evidente che il cuore dell’accordo del 30 novembre, come peraltro quello del contratto dei metalmeccanici, è proprio lo scambio fra la rinuncia ad effettivi aumenti salariali ed il riconoscimento da parte del governo della necessità della concertazione con i sindacati istituzionali nonché, questo viene da sé, la disponibilità a finanziarli indirettamente dirottando parte degli “aumenti” sulla previdenza integrativa – notoriamente i fondi pensione gestiti da governo insieme a Cgil-Cisl-Uil penano a decollare per la legittima diffidenza dei lavoratori – e sul welfare aziendale anch’esso affidato alla cogestione.
Torniamo alla narrazione dei nostri amici esponenti del sindacalismo concertativo. Quando devono rivendicare un successo, a livello generale pongono proprio l’accento sul fatto che, grazie a quest’accordo, una serie di materie importanti sottratte alla contrattazione ed affidate alla legge tornano al confronto fra le “parti sociali”.
Ci si trova di fronte, a questo proposito, a una questione obiettivamente delicata. È, infatti, persino ovvio che in questi anni l’intervento diretto del governo su una serie di materie precedentemente contrattuali è stato decisamente dannoso per i lavoratori e che, almeno in linea di principio, si può immaginare che i sindacati, anche quelli istituzionali, dovendo in qualche misura rispondere degli accordi che fanno alla propria platea di riferimento, faranno di meglio – d’altronde fare di peggio è difficile – di quanto sin ora ha fatto il governo.
Resta non di meno vero il fatto che lo scambio in atto è sempre uno scambio a tre e che gli attori, il padronato pubblico e privato, i sindacati istituzionali, le lavoratrici ed i lavoratori sono in una relazione asimmetrica, visto che chi tratta sono i primi due e chi subisce ed al massimo, di norma, può mugugnare è il terzo e soprattutto che, come dimostra l’esperienza degli ultimi decenni, il reale obiettivo della concertazione è la salvaguardia degli interessi del potere dell’apparato sindacale.
A questo punto, di norma, c’è il coupe de théâtre, cioè l’immediata esibizione dei vantaggi per le lavoratrici e i lavoratori derivanti dalla concertazione e cioè il recente accordo sulla mobilità del personale della scuola.
Su questo argomento il sindacalista vispo e quello moderato operano in perfetta sintonia ed entrambi pongono l’accento per l’essenziale su due punti:
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non c’è più il blocco triennale per la mobilità e, di conseguenza, le colleghe ed i colleghi neoassunti potranno chiedere di essere trasferiti in altra provincia immediatamente. Vista l’elevata presenza di colleghe e colleghi trasferiti dal sud al nord e desiderosi di tornare alla loro città d’origine, una concessione sicuramente gradita;
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la possibilità di scegliere per il trasferimento non solo ambiti, ma cinque scuole e poi dieci ambiti o anche province. È qui necessaria una breve digressione tecnica: con la Legge 107 (o “Buona Scuola” che dir si voglia) si prevedeva solo la possibilità di trasferirsi su ambiti (delle zone nelle quali vi sono diverse scuole, in altri termini) per poi trovare una scuola mediante il meccanismo della chiamata diretta ad opera di un dirigente. Un meccanismo che ovviamente aumenta a dismisura i poteri discrezionali dei dirigenti, determina un accrescimento della differenziazione fra scuole “desiderabili” e scuole “ripugnanti” e che va, ovviamente, combattuto. Concedendo la possibilità di chiedere cinque scuole nel mentre si dà molto meno di quanto fosse possibile prima della Legge 107, cioè di scegliere un maggior numero di scuole, si offre un parziale miglioramento.
Un’Analisi ed un Auspicio
Proviamo a questo punto a passare da questa sia pur povera ricostruzione dei meccanismi che i sindacati concertativi pongono in atto per presentare come una vittoria l’accordo del 30 novembre 2016 a un tentativo di riflessione più ampio e necessariamente più problematico.
È quasi inutile dire che il governo ha fatto un parziale passo indietro non per una mutazione di indirizzo nella sua politica scolastica e, in generale, nella gestione del pubblico impiego, ma perché deve fare i conti con difficoltà evidenti sul piano politico e propriamente elettorale: si pensi alle legnate che ha preso in alcune importanti elezioni locali e, soprattutto, nel referendum costituzionale di dicembre. Già il fatto, però, che le “concessioni” che ha fatto non sono il prodotto della mobilitazione delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola e, in generale, del pubblico impiego, ma di difficoltà nella sfera politica, è un elemento da non sottovalutare.
Le “vittorie” sindacali ottenute gratuitamente valgono infatti esattamente quanto costano e cioè nulla, proprio perché non corrispondono ad un accrescimento di forza, di determinazione, di iniziativa.
In questo contesto e considerando che nel passato anno scolastico gli scioperi del sindacalismo di base possono essere considerati scioperi esistenziali vista l’irrilevanza delle adesioni, i sindacati concertativi possono ragionevolmente puntare sulla riduzione a “tecnica” dell’attività sindacale, opponendo i risultati “concreti” raggiunti con nessuno sforzo a rivendicazioni serie e fondate ma che richiederebbero, con ogni evidenza, per essere considerate alla portata delle lavoratrici e dei lavoratori, mobilitazioni radicali e durature e, di conseguenza, lo sviluppo di un movimento di massa assai più vasto e vivace delle forze che è in grado di raggruppare, al momento, il sindacalismo di base e di categoria.
Ma se ci si propone un obiettivo così ambizioso è necessario, forse più prudentemente si dovrebbe dire sarebbe necessario, un’intelligenza politica ed un senso della realtà che ad avviso di chi scrive in larga misura mancano.
Farò riferimento ad un solo esempio: è evidente che, di fronte all’apertura del contratto e alla presentazione da parte del governo di ben sette su otto – visto che ha avuto la decenza di non toccare il testo unico sull’istruzione – leggi delega, una più mefitica dell’altra, è necessario riprendere l’iniziativa e mettere in campo lo sciopero.
Bene, una rete di collettivi di donne, “Non una di meno”, ha proposto alle forze sindacali uno sciopero con al centro l’oppressione di genere, l’otto marzo. Una proposta che si sta sviluppando a livello internazionale, che affronta una questione di grande rilevanza, che si rivolge ad un universo più ampio del tradizionale lavoro dipendente e che permetterebbe di allargare la mobilitazione al di là delle pratiche consolidate e sovente residuali. Soprattutto una proposta che non contraddice in nessuna maniera un specifica mobilitazione delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola, non solo e non tanto perché la scuola è un mondo per la grande maggioranza femminile, ma anche perché non si vede cosa impedisca di scioperare efficacemente su una piattaforma di categoria nello stesso giorno in cui vi è una mobilitazione più ampia: sarebbe un caso virtuoso di mutuo appoggio e di superamento delle barriere corporative; un esempio di quella fantasia sociologica e del coraggio e della disponibilità a percorrere nuove vie, che tanto sarebbero necessarie.
Invece, nel momento in cui scrivo, i massimi dirigenti di due piccoli sindacati della categoria dell’area del sindacalismo di base hanno deciso che non si doveva in nessun modo “confondere” la mobilitazione delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola con uno sciopero su questioni quali quelle di genere e di indirne uno nove giorni dopo, nel timore, dichiarato, di depotenziare la mobilitazione di categoria e in quello, probabile, di ridurre la propria personale visibilità nel teatrino della politica sindacale.
Ci troveremo quindi di fronte, nell’arco di due settimane, a due scioperi, col geniale risultato di creare confusione fra le lavoratrici ed i lavoratori della scuola, di – visto che il costo di due scioperi non è facile da sostenere – dividere le forze già non rilevantissime, perdere un’occasione importante di crescita qualitativa e quantitativa.
Per nostra, limitata, fortuna, c’è ancora tempo per correggere la rotta ed arrivare ad un’unica mobilitazione visto anche che settori del sindacalismo di base a più saldo orientamento classista nei comparti, ad esempio, dei trasporti, del commercio, della sanità, stanno già lavorando allo sciopero dell’otto marzo, la partita non è persa: sta a noi fare quanto è possibile per uscire da quest’impasse.
Cosimo Scarinzi